Nella mia intera carriera, ho quasi sempre avuto in roster un grandissimo playmaker: Art Schwarm e Dave Tremaine (Evanston YMCA); Tom Wheeler (McKendree College JV); Steve Rymal e John Bailey (Michigan State Freshmen); Steve Kaplan (Navy Plebes); Vic Orth & Ken Helfand (Delaware); Kiko Valenzuela e Manuel Herrera (Cile); Carlo Caglieris (Virtus Bologna); Mike D'Antoni (Olimpia Milano). Ogni successo che ho ottenuto come allenatore è una conseguenza diretta di ciò che questi grandi giocatori hanno fatto per me in campo: cervello, cuore, gambe, braccia, occhi. Fantastici, tutti. Invece, quando mi è capitato di non avere un vero playmaker in squadra, ho fatto una fatica enorme
Sono stato a Delaware cinque anni: i primi due anni con Vic Orth e gli ultimi due con Ken Helfand. Un anno, quello di mezzo (1968-69), non ebbi un play puro in squadra. Anche a causa dell'influenza asiatica, che ci ha stesi fisicamente, abbiamo fatto una fatica tremenda e finito la stagione 11-10. Anzi, nel momento in cui uscimmo dall'influenza, eravamo 6-10. Quando tutta la squadra recuperò fisicamente, mettemmo insieme una striscia di cinque vittorie per arrivare a 11-10. Ho dovuto rivoluzionare l'intero sistema di gioco per mascherare questa carenza, usando l'attacco "Orologio".
Anche durante i miei primi due anni in Italia non ho avuto un play puro di grande livello. Il primo anno alla Virtus, 1973-74, ho avuto un vero play in Pierangelo Gergati, e lui ci ha portati a vincere la Coppa Italia. Ma, per motivi di lavoro legati alla sua famiglia, è dovuto tornare a Varese e ci è mancata la sua personalità. L'anno dopo, 1974-75, ho chiesto a Renato "Cip" Albonico di fare il play, ma lui era una guardia di ruolo e, da esemplare professionista, l'ha fatto solo perché io glielo avevo chiesto. Ma il play super è arrivato nel 1975-76, con Charly Caglieris. Ricordo che, sempre nel 1976, Giancarlo Primo portò soltanto due play alle Olimpiadi di Montreal: Pierluigi Marzorati e Giulio Iellini. Io gli suggerii di portare anche Caglieris, che con noi aveva appena vinto lo scudetto alla Virtus.
Quando allenavo una nazionale, il Cile, convocavo sempre tre pivot e tre play. Primo invece non lo portò e perse i quarti di finale contro la Jugoslavia, 88-87, perchè Iellini e Marzorati erano fuori con cinque falli e non c'era nessuno a marcare Zoran Slavnic, guarda caso un play, che segnò il canestro vincente sulla sirena. E a me dispiacque da morire, per tutti.
Ora, è legittimo che voi mi domandiate: Coach, come si identifica un vero playmaker? Un play puro è quello che pensa in quest'ordine: passare prima, tirare dopo. In altre parole, cerca di mettere i compagni nelle condizioni di segnare e di rendere al meglio all'interno della partita. Il vero play è uno che ha anche una certa mentalità: prima di tutto è un computer che mantiene sempre una visione lucida per quanto riguarda punteggio, tempo, falli, bonus, distribuzione del gioco, quale dei suoi compagni ha la mano calda, quale difensore può essere attaccato in un momento chiave. Inoltre, è uno che pensa sempre in termini di 5 contro 5 e mai di 1 contro 1. Nella prossima puntata inizierò a parlare del vero e proprio lavoro in campo, il ruolo del play.
Il playmaker: battere il pressing (parte # 2)
Un playmaker deve possedere diverse qualità, ma nessuna è tecnicamente più importante che saper battere qualsiasi difesa pressing. Cioè, deve saper portare la palla avanti, anche a tutto campo, contro pressing-uomo e pressing-zona. Se non sa farlo, le altre squadre gli salteranno addosso e la sua squadra perderà.
Ancora più importante: se lui è capace di sconfiggere il pressing, ispirerà fiducia nei suoi compagni, che penseranno: non c'è da preoccuparsi, il nostro play può portar palla oltre la linea di metà campo anche uno contro cinque e poi iniziare l'attacco come se niente fosse.
HO AVUTO una grande lezione in questo nel Torneo dello Stato dell'Illinois, basket scolastico di liceo, high school.
La mia Evanston High School ha vinto sei partite in fila per arrivare ai quarti di finale al leggendario George Huff Gymnasium, nel campus dell'Università dell'Illinois. Nostra avversaria era la piccola Notre Dame HS di Quincy, Illinois, città situata sul fiume Mississippi. Loro avevano due lunghi, compreso l'ala All-State Bill Kurz, 2,03 di talento puro, successivamente una stella a Notre Dame University.
Ma avevamo battuto diverse squadre alte col nostro pressing uomo-a-uomo, asfissiante. Quindi mi sono detto: Kurz e gli altri lunghi faranno fatica a segnare se la palla non gli arriva, perché noi abbiamo il giocatore più rapido nello stato dell'Illinois, George Brooks, un ragazzo di colore, alto forse 1,78 cm, ma con gambe e polmoni da fare paura. Una stella della squadra di football, un duro, un killer. Notre Dame HS aveva un piccolo, Roger Trimpe, forse 1,78 anche lui, mancino, pelle bianca come un foglio di carta, capelli rossi. Mi scappava da ridere: quello lì contro George Brooks! Forse non passerà nemmeno metà campo... Invece, senza fare mai un palleggio spettacolare, Trimpe ha battuto Brooks ogni volta. Non solo: ha dato la palla a Bill Kurz, che ha segnato 32 punti, e abbiamo perso 67-60. L'impatto sulla loro squadra: una tranquillità glaciale. L'impatto sulla nostra squadra: tolta la tranquillità ai nostri.
Mai una lezione ha martellato dentro la mia testa con più forza di quella. Mi sono detto: il mio play deve essere in grado di fare come Roger Trimpe, battere il pressing, dare fiducia ai suoi compagni, iniziare l'attacco. Lui, certo, non ha mai saputo del suo impatto su di me. Quando ero a McKendree College, 1962-63, come viceallenatore sotto il grande James "Barney" Oldfield, lui si ricordò di quella partita e di Roger Trimpe. Mi disse: "Dan, Sherrill Hanks, coach di Notre Dame, usa un esercizio per sviluppare quel fondamentale contro il pressing. L'ho imparato io dal grande Merrill "Duster" Thomas, coach di Pinckneyville High School, che dista solo un'ora da noi". Aggiunse: "io lo chiamo 1-contro-2. Oppure Pinckneyville." Quindi lo provammo in allenamento più volte. L'ho usato da lì in avanti, ogni anno della mia carriera, pure con grandi play come Charly Caglieris e Mike D'Antoni.
Esercizio Pinckneyville, 1-contro-2.
Il coach (cerchio con C), fuori campo, palla in mano, passa la palla dentro il campo, come una rimessa contro il pressing. Il play (cerchio con dentro numero 1) riceve, gira sul piede perno per affrontare la difesa, così non fa passi né sfondamento per la troppa fretta. Due difensori (X1 e X2) pressano il play nel tentativo di impedirgli di attraversare la linea di metà campo entro gli otto secondi disponibili. All'inizio il play fa fatica, poi impara a cambiare mano, palleggiare all'indietro, fare una virata, palleggiare dietro la schiena o fra le gambe. Con questo esercizio, ogni giorno che passa, il play acquista fiducia nei suoi mezzi. Bisogna farlo 3-4-5 volte ogni giorno. Non costa troppo tempo. Il play impara non solo le tecniche ma anche a non guardare in basso e a stare con la testa alta. Infatti, qualche volta, rimanevo io oltre la linea di metà campo ad alzare le dita e chiedere al play che numero fosse. Insomma, è una full immersion per il play: resistenza fisica, sangue freddo, tecnica, personalità, mentalità, fiducia. Ogni giorno che passa, lui diventa sempre più play e le difese pressing gli procurano sempre meno problemi.
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